20 Novembre 2018

Responsabilità 231 anche alle “pubbliche”

La società pubblica non può delinquere. È questo il principio che sembra, ad una prima lettura, sotteso al Dlgs 231/2001, che, nel sancire che anche gli enti «possono delinquere» esclude lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli altri enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni costituzionali. Eppure, di segno contrario appare la giurisprudenza penale, che ha aperto all’applicazione del decreto alle società pubbliche.

La materia del contendere avrebbe potuto cessare con il Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica (Dlgs 175/2016). Ma dall’articolo 6 non si evincono coordinate di lettura. Argomenti sistematici si possono, tuttavia, trarre dalla riconduzione al diritto privato, compiuta dal Testo unico, della materia delle società pubbliche. Se queste ultime sono società come tutte le altre, tese allo scopo-mezzo dell’esercizio in comune di un’attività economica, e allo scopo-fine della realizzazione di utili, esonerarle dal decreto 231 comporterebbe ingiustificati sbilanciamenti, forieri di risultati irragionevoli. La ratio preventiva del decreto 231 vale per tutte le società, non potendo la natura pubblica comportare differenziati binari.

Quanto detto non muta nell’ottica dell’interesse pubblico. L’articolo 1, comma 2- bis della legge 190/ 2012 (la cosiddetta legge Severino) consacra, infatti, il connubio tra modello 231 e misure anticorruzione, definendo queste ultime integrative del primo.
Alla domanda sul se adottare il modello, seguono i quesiti sul come della sua applicazione. Le risposte non si rinvengono nel Testo unico, che, ai tipi societari che descrive, non fa corrispondere regimi normativi differenziati né, tanto meno, filtrate e calibrate applicazioni del modello 231. Eppure, sia dall’articolo 18 della legge 124/2015 (cosiddetta legge Madia), sia dalle determinazioni (n. 8 del 2015 e 1134 del 2017) dell’Anac sembra derivare il criterio della differenziazione della disciplina.

Già nella determina n. 8 del 2015, l’Authority ha, infatti, evidenziato come la distinzione tra società a controllo pubblico e altre società partecipate conformerebbe l’applicazione della normativa anticorruzione, in ragione del diverso grado di coinvolgimento delle amministrazioni pubbliche all’interno dei due diversi tipi societari.
Per analoghe ragioni, i profili differenziali che connotano le società pubbliche dovrebbero indurre all’adeguamento del modello 231, non solo nell’ottica di selettivamente disapplicare le norme del decreto delegato, per ovviare ad ostacoli all’esercizio delle pubbliche funzioni, ma anche al fine di coordinare le misure 231 con i presidi 190, la cui contestuale applicazione potrebbe sortire effetti distorsivi. La diversa linea, o meglio l’assenza di linea del Testo unico rischiano di condurre a superfetazioni o disfunzioni di dubbia compatibilità con i canoni di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa. Come l’assoggettamento delle società in house all’azione della Procura contabile e a quella fallimentare, così il non regolato cumulo delle misure 190 e del modello 231 porta con sé, non solo un potenziale aggravio dei costi, ma anche la perniciosa paralisi di quella buona amministrazione che, proprio in forza dei controlli, si sarebbe voluta promuovere.

Fonte: Il Sole 24 Ore